Giovanni Falcone e quel dovere che non basta più

di Vincenzo Figlioli

Tante volte ci sentiamo dire che basterebbe che tutti facessimo il nostro dovere per fare andare bene le cose. Agli adolescenti ripetiamo ogni giorno che devono studiare, indossare il casco sullo scooter e rifuggire da alcol e droghe.

Dai più grandi ci aspettiamo che facciano il loro lavoro coscienziosamente, che si prendano cura della propria famiglia, paghino le tasse, rispettino le leggi e il Codice della Strada, ricordino di allacciare le cinture in auto e – in tempi di Covid – escano muniti di guanti e mascherine. Innegabilmente, tutte cose importantissime, a qualsiasi latitudine.

La correttezza dei nostri comportamenti è una precondizione necessaria affinchè il sistema funzioni. Nel mondo ideale, in cui ogni cosa va come deve, probabilmente basterebbe. Ma, a fronte di un sistema malato, tutto ciò non basta. Non basta compiere il proprio dovere, non basta operare correttamente e coscienziosamente se intorno a noi regnano le macerie. “A che serve avere le mani pulite se si tengono in tasca”, si chiedeva negli anni ’60 don Milani. Serve a poco, sicuramente, e si finisce per somigliare a Luca Cupiello, il protagonista di una delle più celebri opere di Eduardo De Filippo, che con precisione maniacale si dedicava al suo presepe natalizio, ignorando le turbolenze familiari che si sviluppavano intorno a lui.

In un mondo imperfetto, caratterizzato da una diffusione patologica di ingiustizie e diseguaglianze, assolvere ai propri doveri non basta. Al massimo, potrebbe farci sentire in ordine con la nostra coscienza, ma non servirà a cambiare le cose.

Nella giornata in cui ricordiamo la Strage di Capaci, che il 23 maggio del 1992 travolse e uccise le vite di Giovanni Falcone, Francesca Morvillo, Rocco Di Cillo, Antonio Montinaro e Vito Schifani, una riflessione del genere appare quantomai doverosa. Specie, se questa ricorrenza arriva dopo l’ennesima inchiesta giudiziaria – “Sorella Salute” – che testimonia l’incidenza dell’illegalità e dei fenomeni corruttivi nelle nostre vite. Lo aveva capito perfettamente Giovanni Falcone che, da magistrato, non si limitava allo svolgimento del proprio dovere e lavorò alacremente per studiare il fenomeno mafioso come nessuno aveva fatto prima, indagando criticità, punti deboli e zone grigie per trovare soluzioni che avrebbero permesso allo Stato di debellarlo. In parte lo fece in silenzio, in parte in maniera sfacciatamente pubblica, attraverso articoli, libri, interviste, ospitate televisive. Fu accusato di manie di protagonismo e il suo presenzialismo urtò tanti colleghi che mal sopportavano la sua notorietà e gli attestati di stima e apprezzamento che arrivavano da quei cittadini che poi sono i principali destinatari dei servizi pubblici: sanità, istruzione, sicurezza e giustizia.

Fu un rivoluzionario, Giovanni Falcone, nel senso più pieno del termine, per la sua capacità di rovesciare consuetudini e convenzioni nella lotta alla mafia, fino a trasformarla – alla sua tragica morte – in un argomento centrale nell’agenda mediatica e politica. Il suo impegno contro le organizzazioni criminali non era un’ossessione o un capriccio, ma l’aspetto emergente di un desiderio più grande: cambiare questa terra, renderla davvero libera e democratica.

Di rivoluzionari ne servirebbero tanti, tantissimi altri. Perchè senza di loro non ci sarebbe alcuna speranza di cancellare ingiustizie e iniquità. Serve andare al di là del proprio dovere per costruire un sistema che funzioni.

Chi ha avuto modo di leggere l’ordinanza di custodia cautelare dell’inchiesta “Sorella Salute” si è ritrovato di fronte una serie di intercettazioni da cui non trapelava, nemmeno per un istante, l’interesse al funzionamento dei servizi pubblici. Con un vocabolario sciatto e disarmante, i protagonisti della vicenda parlano di interessi economici e di quote di potere da conquistare, di sponsor da lusingare e misere vendette da consumare. Nient’altro. Un po’ come quei signori che esultavano nel 2009 dopo il terremoto de L’Aquila per gli appalti che sarebbero arrivati con il business della ricostruzione. Leggendo queste (come quelle) intercettazioni, non c’è nemmeno per un attimo la sensazione che, nel perseguire i propri obiettivi, i soggetti citati pensino anche ai cittadini che attendono mesi per una visita specialistica o che intraprendono ripetuti viaggi della speranza per affrontare costose terapie negli ospedali del Nord. Né per gli infermieri o i medici che ogni giorno sono qui, al fronte, a combattere a mani nude le carenze di un sistema pieno di falle.

Ci hanno ripetuto per anni che certe convinzioni, certi valori non fanno parte del mondo adulto e che la vita vera è fatta di compromessi, salotti eleganti da frequentare, relazioni da coltivare, favori da restituire, bocconi amari da ingoiare. Eppure conosco tanti amici che hanno scelto di studiare medicina per passione, per mettere le proprie conoscenze al servizio di tutti i cittadini, dal più povero al più ricco. Sono sparsi per l’Italia, alcuni con tanta fatica sono riusciti a farsi spazio nella propria terra; altri sono lontani migliaia di chilometri dal luogo in cui sono nati, cresciuti e in cui vorrebbero vivere. Hanno scelto di lavorare alle loro condizioni, raccogliendo meno di quello che avrebbero meritato. Mi dicono spesso che tornerebbero volentieri, ma ogni volta che si profila un concorso o un varco qualsiasi per nuove assunzioni, la sensazione è che i nomi dei “fortunati” siano già noti da tempo. C’è l’amico del primario, l’amante del professore, il cugino dell’onorevole, la fidanzata del figlio dell’assessore, il “fratello” della loggia da favorire, e così via. Nomi protetti e blindati, un po’ come quelli delle ditte scelte dalla Centrale Unica di Committenza che gestiva gli appalti nella sanità. E chissà quanti altri 5% sono stati pattuiti, mentre noi ci impegnavamo a rispettare le regole e a tenere le mani pulitissime dentro le tasche dei nostri jeans.

Torno a dire che se questi mesi drammatici di lockdown hanno avuto un merito, sta sicuramente nell’averci restituito la consapevolezza di non poter più accettare un sistema marcio e ingiusto. Dalla sanità all’istruzione, dalla giustizia alla politica, dalla burocrazia allo sport: è tutto da ripensare.

E, allora, ripartiamo da Giovanni Falcone, dal suo lucido spirito rivoluzionario, dalla voglia di andare al di là del proprio dovere, che da solo non basta né mai basterà per cambiare le cose.